I minerali che contengono Terre Rare e altri elementi come litio, cobalto e metalli del gruppo del platino sono oggi un tesoro: se per accaparrarsi le fonti di approvvigionamento di idrocarburi in passato si sono combattute anche guerre sanguinose, oggi è in atto un altro tipo di conflitto, più silenzioso ma altrettanto accanito, per assicurarsi l’accesso a un’altra risorsa mineraria: le terre rare. Si tratta di elementi chimici usati per la produzione di beni diventati centrali per la vita moderna, in ambito soprattutto per quella “green economy” che è stata selezionata per cercare di slegarci dalla dipendenza dagli idrocarburi – diventando così dipendenti da altre e più complesse dinamiche geoeconomiche!
Elementi delle Terre Rare sono necessari per produrre magneti permanenti, batterie ricaricabili, catalizzatori per autovetture e intervengono nella filiera produttiva per ottenere energia “pulita” (turbine eoliche), nel campo aerospaziale e della Difesa (radar, sistemi di guida, satellitari e ottici), nella petrolchimica (ad esempio per il cracking del greggio) e più in generale nella produzione di autoveicoli (motori elettrici e ibridi). Si tratta di risorse altamente critiche, per una serie di considerazioni legate alla natura stessa della distribuzione dei minerali, alle tecniche di estrazione e raffinazione (costosa e inquinante), alla loro scarsissima riciclabilità (tasso inferiore all’1%), al fatto di essere legate a un mercato non regolamentato (come avviene, ad esempio, per oro, rame nichel e altri metalli), ma soprattutto sono risorse estremamente soggette agli umori della geopolitica, in quanto - come detto - la Cina detiene praticamente il monopolio del loro ciclo di estrazione/raffinazione.
La Cina, infatti, oltre a possedere tra i più importanti giacimenti di minerali ad esse associate, ne controlla anche al filiera produttiva per circa il 97%.
Gli Stati Uniti, costretti ad importate circa l'80% del loro fabbisogno industriale, stanno cercando di correre ai ripari siglando un ordine esecutivo inerente alla catena di approvvigionamento di “beni essenziali e critici per la sicurezza del Paese” che riguarda anche i chip dei computer facendo riferimento, più in generale, a due settori fondamentali dal punto di vista geopolitico:
le batterie di grande capacità (utilizzate nei veicoli elettrici) e delle Terre Rare, indicate come “minerali critici”.
La “guerra” sulle terre rare
La “guerra” sui minerali tecnologici sta vedendo però un nuovo campo di battaglia: la Groenlandia. Il Paese ha un enorme potenziale di sfruttamento minerario per quanto riguarda alcuni metalli preziosi – come l’oro e il platino – ma soprattutto per quanto riguarda alcune Terre Rare che potrebbero essere estratte per un ammontare annuo di 60mila tonnellate, ovvero pari al 30% del fabbisogno mondiale.
Secondo il servizio geologico nazionale statunitense, la Groenlandia ha infatti la possibilità di surclassare la produzione di Terre Rare cinese in pochi anni: in pochi anni il Paese potrebbe estrarre circa 500mila tonnellate/anno di due minerali (eudialite e feldspato) da cui si può ricavare Tantalio, Zirconio e Niobio, la cui quotazione sui mercati supera di gran lunga quella dell’oro.
Oltre a questi sono stati scoperti depositi di minerali di ferro, piombo, zinco, nickel, uranio e con ogni probabilità anche riserve di idrocarburi.
Proprio per questo motivo la Cina sta investendo attivamente in quote dell’australiana Greenland Minerals Ltd, attiva nella ricerca di questi elementi nel sito di Kvanefjeld, ma non è la sola.
Sempre gli australiani sono molto attivi, con la Tanbreez che è proprietaria del secondo deposito per grandezza della Groenlandia (cerio, lantanio e ittrio) in collaborazione con gli Stati Uniti, e con la Conico Ltd, che a luglio del 2020 era in trattativa per acquistare il 100% della britannica Lingland Resources Ltd attiva nel progetto di prospezione “Ryberg”.
Presenti anche i cechi, con la Czech Geological Research Group che detiene cinque licenze nella zona centro-est e nel sud e i canadesi della Hudson Resources Inc. possessori del 33% della miniera ddi White Mountain (Qaqortorsuaq) e del 100% del progetto di esplorazione di Sarfartoq (neodimio, niobio e tantalio). Capiamo quindi perché Pechino ha deciso di investire in infrastrutture in Groenlandia, e perché l’ex presidente statunitense Donald Trump, nel 2019, propose di “comprare” il Paese dalla Danimarca, generando una mal riposta ilarità.
Gli Stati Uniti sembrano però in vantaggio rispetto a tutti gli altri: oltre ad avere una presenza stabile nel territorio, nel 2019 gli USA hanno firmato un memorandum d’intesa con le autorità groenlandesi volto a cominciare una nuova campagna di prospezione geologica, tramite un’indagine congiunta, al fine di aumentare gli investimenti americani nell’esplorazione mineraria. Inoltre il Nordic Council of Ministers (composto anche dalla Groenlandia) ha evidenziato la minaccia della penetrazione russa, ma soprattutto cinese, sull’Artico occidentale, limitando così il campo d’azione a Pechino. La partita però è ben lungi dall’essere chiusa: la Cina possiede strumenti di penetrazione economica e commerciale molto potenti, come la capacità di costruire infrastrutture che possono avere un peso determinante in considerazione delle aspirazioni di indipendnza della Groenlandia.